giovedì 9 febbraio 2012

L’apprendimento elementare (Mondadori)
GRAZIA CALANNA

La prodigiosità del quotidiano in un policromo ventaglio visivo. Acquerellare l’odierno con primitivi pennelli, arditezze distillate dall’occhio illibato di un veterano fanciullo. “Ciò che siamo è invulnerabile”. Narrarsi narrando, denudandosi, affrancandosi dall’artica prigionia dell’incomprensione. A principiare dal titolo, “L’apprendimento elementare”, edizioni Mondadori,  distintamente, emergono due spunti inerenti le liriche di Fabrizio Bernini. Uno tematico, l’apprendimento imprescindibile, l’altro stilistico, l’ironia capillare. Imparare, nel senso primigenio di apprendere coll’intelletto, è tutt’altro che elementare. Il poeta anela l’apertura di un valico, “solitudine immaginaria”, percorre a ritroso il proprio personalissimo tratto temporale delineando, tra amarognole contentezze e malinconiche panacee, particolari, “ho messo le dita nella poca neve che ormai non cade da anni e mi è sembrato di bucare un corpo inutile, come il nostro”, e luoghi dell’anima, “il tetto di casa mia è il tetto della scuola. Visto da quassù sembra un cappello dove il sole sbatte scivola sugli spioventi, sgocciola nell’ombra”, distintivi di un itinerario che diviene universale. Lo sconquasso del tempo sul filo reciso della prevedibilità, “così diversa è la vita se il caso ti sceglie”, ciondola, avanti indietro, sull’onda corta di fiati orchestrati dalla dubbia clemenza del vento, “qui tutto ormai è prospettiva”. La solitudine si specchia “sui sassi lucidi” e il dolore, segreto come lo è “ogni posto”, fermenta “con le lacrime morse nei denti”. Invero, “comprendere è impensabile”, ciascuno “è freccia e bersaglio”. Giovinezza, “ti penso da questi luoghi con la schiena sul ciliegio e l’acacia”, e senescenza, “parla ai suoi anni, messi in ordine nelle pelle scalpellata”, l’una al cospetto dell’altra, identiche, se non nell’esperienza, nel rovesciamento, il vecchio “credeva alle piante e ai fiori”, il ragazzo “li avrebbe pestati quei fiori”. In un mondo asfissiato dall’asfalto, dalla “plastica in bocca e tra i denti”, l’autore osserva l’evidenza dell’eguaglianza di fronte al bisogno, “come bestie, torniamo a casa di sera”, e, con essa, l’impellenza del riparo, “tutto andrebbe conservato, così come la memoria tiene ogni cosa senza farcelo sapere”. Pagine trasudanti, “visione d’immenso”. L’inquietudine esistenziale, “grama battaglia contro il feltro del cuore”. L’alienazione della reiterazione, scordando “quello che andrò a rifare”. L’emancipazione dal dubbio, “il mistero non c’è mai stato, non cercatelo più. Tutto sta in questa parabola breve, ognuno sente per l’ognuno che è”. Accenti (acuti) sulla facoltà di  fantasticare. Salvifico incanto vitale, a ciascuno il proprio “bivio di pensieri”. Immaginare “corpi dietro le pareti, fiati a tempo dentro al sonno, le coperte tiepide, tutti i particolari di un sogno, le vere frenesie di ogni coscienza”.   

(La Sicilia Cultura 09.02.2012 – www.lasicilia.it)

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