mercoledì 1 febbraio 2012

Da Mody Dick all’Orsa Bianca
di Anna Maria Ortese (Adelphi)

Scritti suadenti, distinti da raffinatezza, levità, trasporto, dolcezza, umorismo, esplorazione, amore, come quello per la lettura che si rivela “fra le passioni più belle della vita, spazio del diletto e del riposo dell’anima e insieme della costruzione del senso del suo essere nel mondo e del suo starvi da scrittrice”, abbracciano, dal 1939 al 1994, un lungo periodo di intensa attività giornalistica.  Parliamo del libro, curato da Monica Farnetti, “Da Mody Dick all’Orsa Bianca” di Anna Maria Ortese, edito da Adelphi, che si schiude con una deliziosa narrazione inerente il “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi”, il giovane favoloso, colui che “ebbe e ci diede il senso dello spazio, del tempo, e, con esso, lo sgomento della nostra piccolezza, l’affannato interrogare, il ripiegarsi muto”. Straordinari i capitoli intitolati: a Cechov, leggere una sua pagina, riflette l’autrice romana “è come mettere l’occhio su un vetro nitidissimo e guardare sotto scorrere la vita”; alla ragazzina di Amsterdam, Anna Frank, all’innata “esigenza di verità”, alla capacità di “resistenza al male” - dovunque esso sia -  e al suo “diario esemplare”, custode di “un mondo che dura due anni, ma è eterno, perché è di tutti i tempi e di tutti i luoghi”; a Eduardo De Filippo, “inimitabile, incantevole evocatore di tutto un mondo e un costume in apparenza piacevole, in realtà cupo e disperato, un mondo e un costume che si dibattono ai margini della vita moderna, della ragione umana, costruttiva, senza comprenderla né esserne compresi”; a Dino Buzzati, a “quella sua facoltà più che umana, misteriosa e tranquilla, di avvertire, nella solitudine, la solitudine degli altri; di carpire, solo in apparenza immobile, la paura e il dolore del mondo”.  Ancora, singolari gli spunti offerti dalle letture del  “Ritrattino del Dandy” nel quale si ricorda Baudelaire, colui che “ha lasciato una immagine del dandy superiore a quella suggerita da qualsiasi altro scrittore”, e di “Cristo e il tempo” dove è  rammentato che “siamo appena l’altra parte dell’Universo, dov’è posto il sigillo, siamo il primo Enigma, che aspetta in eterno - senza porre vere domande - una risposta già venuta da duemila anni, e che il silenzio, e l’atrocità del silenzio, vanno ora mutando in giudizio”. Nel contempo esilarante, caustico e meditativo  “Il piacere di scrivere” che, schiettamente, premessa l’italianissima (pretesa) vocazione, bacchetta “ogni abitante-scrittore” che se ne sta sul proprio “manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell’altro: e se quello è più colmo, sono occhiate, lacrime…”. Un modo per dire che dovremmo cessare di stendere soliloqui per piacere a noi stessi o, peggio, agli altri. Un’esortazione a rispolverare il valore autentico della letteratura,  “un richiamo, un grido che turbi, una parola  che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze”.               
Grazia Calanna


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