martedì 24 giugno 2014


LA RACCOLTA DI ANGELA BONANNO
“Pani schittu”, allegoria del reale in vernacolo
LA SICILIA del 20.06.2014

di Grazia Calanna

 

“Astutari vulissi ccu du ita / u picciu d’e cannili / cammari a tussi d’o munnu” (Spegnere vorrei con due dita / il pianto delle candele / calmare la tosse del mondo). L’audacia della semplicità, da intendersi, quest’ultima, come “forma della vera grandezza”, distingue i versi di Angela Bonanno e, peculiarmente, quelli della raccolta “Pani schittu”, edita da CFR, vincitrice del IV Premio “Franco Fortini”. Versi in vernacolo che, come evidenzia Manuel Cohen nella gustosissima prefazione, offrono “un surplus di vitalità linguistica dagli effetti notevoli, per condensazione polisemica e per riverberazione analogica, per icasticità di sguardo e per rapidità di sintesi e movenze”. Sull’ordito del tempo, versi in costume adamitico, come pane, ora secco, salato, sostanzioso, sbriciolato, solitario, bastevole, come pane, in “tempi di fame”, rovello, raffermo, votivo, zitto, fermo, “in gola”. Il pane, allegoria del reale, “annachiti ca u tempu briganti / cala d’e muntagni e n’arrobba” (sbrigati che il tempo brigante / scende dalle montagne e ci deruba); contraltare dell’esteriorità, “essiri scurdata è / non essiri” (essere dimenticata è / non essere); lievito quotidiano, “è sempri n fattu di fami / l’amuri è quannu non c’è” (è sempre un fatto di fame / l’amore è quando non c’è). Essenziale alla vita. Nudo, come la poesia.

- Per Eliot la poesia «è fuga dall’emozione, fuga dalla personalità», per lei?

Per me è sullo stesso piano dei bisogni primari: cibo acqua, poesia, camminare…”.

- «La scrittura esige virtù scoraggianti, sforzi, pazienza; è un’attività solitaria in cui il pubblico esiste solo come speranza». Con  Simone De Beauvoir per chiedere: oggigiorno qual è la funzione della poesia?

Condivido il pensiero della De Beauvoir. La funzione della poesia, e della cultura in generale, potrebbe essere di educarci all’ascolto. C’è troppo chiacchiericcio inutile, ci sono rumori molesti. Non c’è pudore nel voler scrivere, nel voler dire. Bisogna fare spazio, fare pulizia, per lasciare posto al «bello»”.

- «Pani schittu», questo titolo forse perché, come insegna Epicuro, «I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca»?

Non c’è niente di semplice nel “pani schittu”, è cibo primario di rivoluzione, di resistenza, di trasformazione. Sempre vivo”.

- Assodato che, come scrive, “è l’omu a peggiu speci” (l’uomo è la peggiore specie), la poesia può migliorarci?

“Si. Se riesce, e quando riesce, a essere chiave che apre le porte verso quel “«qualcos’altro»”.

Le mie parole sono girasoli, si aprono in un grido (“i me paroli su girasuli / si rapunu cc’u na schigghìa”), tuona la Bonanno. Un grido lacaniano, aggiungiamo noi, chiaro monito, eco diffuso tra floridi fogli, che la vita umana, per non smarrirsi nel crepuscolo, necessita dell’altrui risposta.

GRAZIA CALANNA


CAVALLARO

Un Angelo forsennato fra il Paradiso e la terra

LA SICILIA del 20 dicembre 2013

di Grazia Calanna

 

 

“Il Paradiso visto dalla Terra, il Paradiso dove ci attendono gli “Affari di Lassù”,  il Paradiso luogo di ipotesi e risposte, dei “Santi incontri”, il Paradiso quasi dietro l’angolo e con un angelo sempre pronto a darci una mano (casualmente?), vegliando su di noi”. È questo, dalle parole dell’autrice Grazia Cavallaro, il leitmotiv del nuovo libro, A&B Editrice, “Favole del Paradiso”. “Di ritorno dalla terra… Sembro un forsennato. Ma per chi mi hanno preso, per un pacco postale? Non so per quanto tempo ancora riuscirò a sopportare di viaggiare senza potermi fermare per tirare un bel respiro, (Qui le pause sembrano durare un’eternità!”). Esordisce così il protagonista, l’Angelo custode di Astrid, delizioso scarabocchio che, nel precedente libro della Cavallaro, “Il Bianco e il Nero”, è diventato umano. In un’epoca tecnologica in cui gli studiosi cercano risposte concrete ai quesiti insoluti sull’universo, la favola, chiarisce l’autrice, “crea mondi paralleli permettendoci di viaggiare lontano, fino a trovare, negli spazi reali nella fantasia, risposte e soluzioni”. Un nugolo di personaggi animano pagine di storie incardinate su un chiaro messaggio: “per trovare il proprio paradiso interiore occorre recuperare la parte migliore di noi stessi, spesso saccheggiata dal divenire esistenziale”. Ci sono i fratellini Bàstis e Raya, nati, quasi ai margini del creato, per ritrovarsi e volersi bene; l’Omone e Peppina che sfidano avversità dissimili con coraggio e pacatezza; l’Uomo Stanco, a lavoro da mattina a sera per guadagnarsi da vivere e sostentare al meglio i familiari, al proverbiale incontro con un Gigante dall’abbraccio paterno. E, ancora, non ultimo, il Diavolo, snervato del proprio ruolo e delle inevitabili connessioni negative, disposto nientemeno che a servire il suo antagonista pur di essere dimenticato da chi lo invoca continuamente, una figura quasi umana, per via della ricerca di cambiamento e di posatezza interiore. “Scrivere come pensare - dichiara la Cavallaro -, è una forma di dialogo con noi stessi con la differenza che scrivendo, oltre ad analizzare i sentimenti umani, trasmettiamo valori. Tutto questo ci aiuta a vivere in pace con noi stessi e col mondo, dando un senso diverso alla nostra vita. Questo accade soprattutto quando, strada facendo, incontriamo difficoltà senza risposta o procediamo accompagnati da tanti dubbi. La fiaba è un percorso introspettivo in noi stessi alla ricerca dei nostri personaggi, degli antagonisti, degli sconosciuti, delle storie in apparenza lontane. È un cammino nel mondo che ci circonda visto attraverso gli occhi della nostra anima. Leggendo ciascuno può trovare la sua parte di mondo e, dunque, la fiaba diventerebbe il luogo rappresentativo nel quale ritrovarci e rispecchiarci a vicenda”.  

GRAZIA CALANNA

 

 




«QUEL GRIDO RAGGRUMATO» DI RITA PACILIO

Quando la poesia s’interroga sull’individualismo

LA SICILIA 11.06.2014

di Grazia Calanna

 

“La poesia dovrebbe sentire proprio il contesto di ogni civiltà, dovrebbe guardare in tutte le direzioni territoriali e sociali per conoscere i limiti dei paesi, delle aree geografiche che ancora parlano linguaggi educativi retrogradi e incivili. La poesia deve viaggiare, se è necessario deve interrogarsi e scegliere l’alternativa della politica solidale mondiale per riscattarsi da concetti legati alla meridionalità e all’individualismo sempre più sordo”. Una riflessione dell’autrice, Rita Pacilio, per introdurre “Quel grido raggrumato”, lancinante raccolta che, dopo “Non camminare scalzo e “Gli imperfetti sono gente bizzarra, chiude, per le edizioni de “La Vita Felice”, la trilogia abbarbicata sui  dolenti assunti dell’emarginazione. “Ci sono sentieri che nascondono l’inganno dei lastroni / e le mani dei padroni sono daghe, punte venute dall’est. / Inganna la zeppa nera, si abbevera alla macchia riccia di sole / scruta l’iride abbassata il sonno del cliente, antico padre. / Sono parole sacre le voci dei bambini, tiepide le fronti / eppure i glutei hanno croste, boomerang colpiti nel segno / fino ai fianchi pulsano inverni consumati domani / intorpidite le rupi si muovono come nembi folli le bufere. Non si aprono fenditure ma canaloni indecifrabili / un lappare lento, immaturo / che giunge all’agitazione tra le natiche della bestia / nel luogo livido di pianura chiuso in quel grido raggrumato”. “Parlo - aggiunge la Pacilio -, della vendita degli organi, della prostituzione minorile, della misoginia, della difficoltà a comunicare nonostante la vicinanza, il contatto”, “L’hanno tenuta in due come un foglio, un lenzuolo / i polsi e le caviglie erano in una forma che si stira / un mandarino intero riempiva la bocca e la gola / nel chiarore del vicolo divaricato fra le trombe d’aria / il suo esame di idoneità, la preparazione al primo / cliente la rendeva frutto acerbo del cactus / desiderato dalla censura di chi si apre i pantaloni / e spinge guardandosi intorno che sia coperto / dalla colpa che non si fermerà nella frusta dei reni / ma sintonizza il morso e il liquido che cola / dalle due bocche aperte lungo una linea comune / in quel triangolo nero da cui escono periferie e disordine”. Versi audaci che “sulle mani esplorano la via del ritorno”. Versi scarlatti, “la scintilla intima del riscatto acidulo e anticipato”, protesi verso le lampanti gradazioni del rifacimento, a principiare da un mondo in cui “ognuno perde se stesso e il chiaro sole”.Versi della rifioritura, “Dio non nega la gloria e la salvezza / i criminali hanno il loro tempo / un’acqua sul volto, nelle mani carta bianca”, dell’impervia riabilitazione, “È sollievo giustificare / la responsabilità dell’offerente / salvarsi dalla pena ripetuta. / Anche gli uomini si innamorano”.