Ho rubato la pioggia (Elisa Ruotolo, nottetempo)
di GRAZIA CALANNA
Parafrasando Victor Hugo viene da dire che la libertà principia dal titolo (ironico) e procede, assieme alla verità, nell’intimo segreto di un sogno individuale. “Dalla scrittura - sottolinea Elisa Ruotolo autrice di “Ho rubato la pioggia” (nottetempo) -, non mi aspetto più di quanto non le abbia già preso finora: la serenità di una stanza silenziosa eppure affollata, il privilegio di un tempo radicalmente mio, la possibilità, estremamente ambiziosa, di causare un piccolo fiat lux con il fiammifero che porto continuamente in tasca e che accarezzo con la punta delle dita. Credo che uno scrittore dovrebbe anzitutto imparare questo: aspettare il momento giusto, la storia giusta, la parete adatta per ruvidità e consistenza e solo lì strofinare la capocchia del suo piccolo fiammifero”. Intenso, elegante, figurato, lo stile della giovane letterata avvince e cinge in un abbraccio lucente che effonde fiduciosa attesa. Tre narrazioni legate (forse) dalla figura materna (presente finanche assente). “Molto leggenda” è il protagonista del primo racconto, un ragazzino, “mai avevo pensato che la mia vita potesse stare tutta lì, in un dare di piede contro un pallone”, strappato alla rassicurante piattezza familiare dal proprio talento calcistico, dall’abbaglio di popolarità, dalla vanità di un padre fiero e speranzoso in forte contrasto con una moglie inflessibile e certa che senza sudore c’è poco da illudersi, “non mi diede una mano, uno sguardo, non un segno qualunque che mi facesse sperare che forse forse poteva anche darsi che stessi facendo la cosa giusta”. Nel secondo racconto colpiscono, assieme, un’audace donna che non si rassegna alla scomparsa del figlio, “un giorno dopo l’altro, non aveva pensato che a quello: al caldo della controra, al vapore ondulato che saliva dal basalto irregolare e alla strada deserta del primo pomeriggio, quella da cui Matteo non tornava”, e due bizzarre sorelle “cariche di barattoli di conserve, col cuore pieno del loro amore infantile che non conosce mezze misure”. Nell’ultimo la voce narrante è quella di un ragazzino senza madre, “c’è stato un tempo che facevo il conto delle ore sperando che arrivasse presto quella in cui l’avrei vista scomparire dai depositi dei nostri cassetti, dalle parole indelicate della gente, quella in cui avrebbe smesso di torturarmi la circolazione”, quieto (acuto) osservatore accudito da Silvia, “con la disperazione premuta forte in ogni gesto”. Storie apparentemente semplici che, a prescindere dall’ambientazione, hanno il pregio di appartenerci per quella sapiente combinazione di fattori (vitali) i quali ci spingono a credere (fermamente) in quel “qualcosa di buono” che, a prescindere dai frutti, appartiene a ciascun uomo e alla sua vicenda.
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