Intervista alla poetessa
Franca Mancinelli
“La
scrittura è la nostra impronta, la traccia fossile del nostro passaggio sulla
terra”
di Grazia Calanna
La bellezza, come la coscienza, non mente. E, in coscienza, i versi di
Franca Mancinelli sono belli di quella bellezza lieve propria dell’azzurro che
“torna a coprire la terra”. Liriche protese verso l’oltre terreno dove
“cucchiaio nel sonno, il corpo / raccoglie la notte”. Versi verso la nudità
dell’essere, con occhi che al buio vedono più che al chiarore, con occhi che
nel sonno scrutano “le tracce dell’uomo che ieri abitava i tuoi stessi
vestiti”. Versi confidenti, adiacenti l’orizzonte, “Torneranno a tracciarsi le
strade / alle scarpe che vanno / confermando i confini / di cose tra cose”. Versi
- parliamo di “Pasta Madre”, Nino Aragno Editore - che, come scrive il
prefatore Milo De Angelis, “possono avere una forza oracolare, la sapienza di
chi è stato per tutto il suo tempo a contatto con la morte”.
Quali sono i ricordi legati alla tua prima poesia?
Non ricordo di preciso quale sia stata e quando l’abbia scritta. Ad ogni
modo è una delle poesie che sono poi andate a comporre Oltre la giostra,
la prima sezione del mio primo libro, Mala kruna. Per anni, subito dopo
l’infanzia, per tutta l’adolescenza, ho scritto d’istinto, ad occhi chiusi,
cercando a tentoni di capire dove mi trovavo, quello che mi stava accadendo e
soprattutto cercando una porta per uscire, per andarmene. Quaderni, taccuini,
foglietti, sono andati a riempire due scatole che conservo nell’armadio. A
volte li rileggevo come guardando vecchie foto, riavvolgendo il filmino della
mia vita, senza che potessi credere davvero in loro, perché la vita continuava
a travolgermi, in un modo assoluto, prepotente, molto più di quelle parole che
venivano tardi, registrando qualche traccia, una breve scia. Poi, nei primi
anni dell’Università, una dolorosa esperienza mi ha portato con le “spalle al
muro”: un fucile puntato alla fronte, e ho aperto gli occhi. Ho ritrovato la
scrittura ed era qualcosa di diverso. Ad un tratto ero al di là di un masso
insormontabile che mi aveva sbarrato la strada. Ero passata oltre, senza sapere
come.
Quali i poeti che ami e, più in generale, quali le letture rilevanti per la
tua formazione?
Ci sono libri che ci
aspettano sulla strada, per dirci qualcosa di noi, della direzione che dobbiamo
prendere, di quello che dobbiamo attraversare. Come nelle fiabe i messaggi
affidati alla voce di una strega, di un animale parlante, nascosti sotto una
pietra, oppure proprio sotto i nostri occhi, sull’etichetta di una bottiglia,
tra gli ingredienti di un dolce. Queste voci che mi hanno parlato, che mi hanno
direzionato negli intrichi del bosco, sono Cesare Pavese, Fernando Pessoa,
Rainer Maria Rilke, Leopardi, Dostoevskij, e naturalmente Dante. Le loro parole
sono entrate trasformandomi, rimpicciolendomi più di un neonato, facendomi
crescere più di un adulto, fino a schiacciare la fronte sul soffitto. Ho
copiato per anni in un mio quaderno le frasi dei loro libri, da buona amanuense.
Nei movimenti della mano sul foglio, sentivo le loro parole filtrare
lentamente, immerse nel gesto che le faceva rivivere. Silenziose, sulla pagina,
nella mia grafia, erano come riconquistate, erano mie per un momento più lungo
della lettura. Poi entravano nella mia memoria, camminando per le strade
serali, con un foglietto stropicciato che di tanto in tanto riportavo agli
occhi mentre sillabavo nella mente o a labbra socchiuse. È stato il mio modo di
ruminare.
«La vera poesia è il contrario della solitudine, proprio perché mira a
rendere più intenso il rapporto con l'altro. L'artista solitario,
rinchiudendosi nella propria differenza, finisce per non sopportare più gli
altri. La vicinanza di altri poeti è invece sempre benefica alla poesia. Io ne
ho beneficiato tutta la vita». Con Yves Bonnefoy per chiederti: il poeta, la
poesia, oggigiorno, cosa abbisognano?
Sono d’accordo con Bonnefoy: sicuramente dell’altro, degli altri. Ho
intitolato il mio secondo libro Pasta madre, pensando proprio anche a questo
fondamentale bisogno. La pasta madre infatti è una materia che ha
un’inesauribile potenziale di generazione, di vita, ed allo stesso tempo è
fragilissima. Se non viene nutrita da qualcuno, muore, se non viene accolta,
resta incompiuta, senza forma. La scrittura per me è qualcosa di molto simile:
può essere madre di tante cose, portandole alla luce, ma è solo nel rapporto
con l’altro, nel suo spazio di ascolto, che lievita un senso. Credo che la
poesia per mantenersi in vita abbia bisogno di sentirsi parte di una comunità,
di rimescolarsi nei gesti quotidiani, di impastarsi in questa antica e nuova
materia della nostra lingua, oggi più che mai bisognosa di essere nutrita, non
lasciata morire.
“ho scritto quello che volevo dirti / sotto le palpebre. Domani / appena le
riapro leggerai”. Con i tuoi versi per chiederti qual è, del tuo “Pasta Madre”,
il messaggio che consideri cardine per il lettore? Cosa auspichi possa,
scorrendo lo sguardo, scegliere di custodire?
Non ho scritto questo libro con un progetto. Non sono mai riuscita a farlo
fino ad ora. Non c’è quindi un contenuto o un messaggio che intendevo
trasmettere. Sento molto la poesia come una traccia lasciata dal nostro corpo,
con tutto il suo peso e la sua quotidiana lotta per mantenersi in vita, per
ridare senso a gesti semplicissimi, che ci sostengono, come il preparare il
cibo, il mangiare, l’abbandonarsi al sonno. La scrittura è la nostra impronta,
la traccia fossile del nostro passaggio sulla terra. Nel lasciarla, non
possiamo sapere cosa conteniamo, di cosa siamo portatori, che cosa abbiamo
accolto. Con il tempo però, riguardando questi segni, possiamo riconoscere
qualcosa di noi, di quello che ci ha abitato. E dal nostro profilo scorgere
indietro quello dell’uomo e forse ancora più indietro quello della specie.
Posso dire di avere riconosciuto alcune linee, alcuni contorni: nella parte
centrale del libro, ad esempio, c’è la scia lasciata dal passaggio di un amore,
o del suo fantasma, e poi quella di uno sguardo sulla maternità biologica,
osservata come un miracolo, ma anche quella della scrittura che porta ad essere
madre di se stessi, a prendersi cura della parte più fragile di noi,
sollevandoci da terra, come fa una gatta che porta il figlio nella cuccia. Mi
lascio scrivere, mi affido alla scrittura, ma la aspetto anche con inquietudine
e timore, come un’infiltrazione che inizia a premere, a rigare il soffitto,
frantumando quello che prima sembrava conosciuto, familiare. In questo libro ho
vissuto la poesia come una materia originaria, umile, fatta di cose
semplicissime come acqua e farina (voce e silenzio, bianco e nero). Mi auguro
che chi transita attraverso queste pagine l’accolga, la contenga, la porti a
compimento.
Ti porgo un quesito usufruendo (ancora) dei tuoi versi: “con la costanza
degli insetti / torniamo contro questa / luce che non si apre, che ci spezza //
quanto ancora busseremo / al vetro che divide / l’ossigeno dal cuore?”
La prima risposta che mi viene è “per sempre” o, perlomeno, ancora per
molto. Questo “bussare” è legato al battito vitale, alla pulsazione del sangue.
Ma è anche l’immagine di un’agonia, di una lotta per liberarsi. Mi è molto cara
l’immagine degli insetti imprigionati in casa, che sbattono contro i vetri,
cercando di tornare da dove sono venuti. Vanno verso la luce, ma con una sorta
di cecità costante, autolesiva. Li ritrovi esausti, rovesciati sul dorso,
inerti, sul davanzale. In questo scontro riconosco la scrittura, il suo battere
contro un limite invalicabile che, pure, continua a richiamarci, come una promessa
di una dimensione diversa, di un’aria finalmente nostra, liberata. Mi chiedo
quante forze abbiamo ancora per ritentare, per resistere a quest’urto. Forse
gran parte del nostro scrivere si è arreso ad aggirarsi dentro stanze di aria
consumata, tra mobili e soprammobili e, astutamente (o forse saggiamente), non
si dirige contro i vetri, non si spezza per seguire il richiamo della
luce.
Scegli alcuni dei tuoi versi per salutare i lettori.
Scelgo due poesie molto brevi che appartengono all’ultima sequenza del
libro. Le ho scelte perché siamo nella stagione delle spiagge affollate, dei
corpi allineati al sole e anche perché ripropongono il tema della
scrittura-corpo di cui ti ho parlato. In entrambi i testi questo paesaggio
marino evoca scenari inquietanti, prossimi alla morte: “dischiusi
all’equilibrio”, soffermandosi sui corpi abbandonati all’acqua che, come si
dice quando galleggiano sul dorso, “fanno il morto” (qui letteralmente);
“trafigge il sole polsi abbandonati”, ritraendo invece questa sorta di rottura
del gioco che ci regge nella quotidianità, e questo essiccamento che cerchiamo,
a cui ci esponiamo. In entrambi alla fine quello che resta è un’immagine nitida
di corpi, stagliati sulla sabbia o sull’asfalto. La nostra scrittura appunto,
il nostro fossile.
dischiusi all’equilibrio, hanno creduto
al varo e alla deriva
nel moto continuo. Anche i gabbiani
passano su di loro senza grida.
Così dopo un incidente
restano sull’asfalto frutti intatti.
**
trafigge il sole polsi abbandonati.
Semivivi o cadaveri
sparsi come fiammiferi
di una torre crollata.
Ora la pelle prende fuoco
perché del sangue resti impronta secca.
(l’Estroverso n. 3 / 2013 su www.lestroveros.it
– LA SICILIA versione ridotta, “Liriche protese verso l’oltre terreno”,
19.08.203)
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