venerdì 14 dicembre 2012


Intervista alla scrittrice Rosa Matteucci

 

“La cattiveria più grande quella del silenzio”

LA SICILIA CULTURA 10.12.2012

di Grazia Calanna

 

“Sul set di un film che non si farà, un Calvario dove Cristo non muore davvero e quindi non risorge, va in scena la storia dei destini incrociati di due donne, un’attrice in cerca di parte e una giornalista free lance, inconsapevoli interpreti di una sceneggiatura senza autore che brancola anelando un lieto fine”. Parliamo di “Le donne perdonano tutto tranne il silenzio”, nuovo stuzzicante romanzo, edito da Giunti, scritto dall’immaginifica e schietta penna (“Siccome ho pagato otto euro di cambio treno, mi sono fatta assegnare il posto di fronte a lui. Perché le cose accadono e noi con loro. Sulla spiaggia infuriava la mareggiata. Il lettore è stato rude e indifferente, come fanno due persone che si incontrano casualmente, si fiutano e si riconoscono”)  di Rosa Matteucci (nella foto di Fabio Lombrici). “Alcuni raggiungono la loro massima cattiveria nel silenzio”. Ha pensato a qualcosa del genere, come esplicitamente recita la frase di Elias Canetti (tratta da La provincia dell'uomo - 1973), quando ha scelto il titolo del suo nuovo libro?  

“No, il titolo viene da una riflessione scaturita da una risposta letta sulla rubrica la posta del cuore di Natalia Aspesi, mediata dalla lettura e rilettura dei saggi di Aldo Carotenuto, Jung a tutto andare, dove si parla del dolore intimo provocato dal silenzio, dell'opposizione del silenzio maschile alla dialettica femminile, che è vita”. Qual è la peculiarità di questo suo romanzo, cosa lo distingue dai precedenti lavori?

“Non mi è chiaro ancora, sicuramente il fatto che sbarazzatemi della pesante zavorra della storia della mia famiglia, posso finalmente scrivere quel che voglio, non avendo più l'onere di consegnare ai posteri la memoria di mio padre, ovvero il fardello della mia biografia, ormai cauterizzata, oltre che condivisa con altre anime gentili”.

“Quando mi ha stretta a sé ho pregato che quell’abbraccio fosse espressione di un giudizio decisivo del mio passato, e di una sentenza irrevocabile del mio avvenire. Invece è stato frettoloso e bruciante e sono rimasta con quel senso amaro di sogno che stava per realizzarsi e solo per sfortuna sia sfuggito”. Dell’amore, tema centrale del libro, qual è la sua segreta  definizione?

“L'amore non so definirlo se non come qualcosa di eterno e potente che parte dal cuore di ciascuno di noi e attraverso peregrinazioni, sofferenze, abbandoni e felicità ci riporta al cuore stesso”. “Scrivendo si rimane in bilico fra contemplazione di sé e comunicazione con l’altro. Una strada scivolosa che si riesce a percorrere solo con grande spudoratezza. Scrivendo, io taglio la realtà come mi pare, chi mi legge taglia la storia come piace a lui. È la libertà assoluta, una libertà necessaria”. Uno spunto di riflessione con le parole di Elena Loewenthal per chiederle: dovesse descriverla, cos’è per lei la scrittura?

“La  domanda sulla scrittura non pretende risposte, sono insite in quello che ho scritto finora, non mi piace dare delle definizioni precise, dove precisione, linearità, certezza non ci sono. Posso dire che i libri hanno rappresentato per me un lieve ponte di barche, di zatterine, su cui attraversare il tempo, la vita”.

Quali i ricordi legati al suo primo romanzo?

“La morte di mio padre e un viaggio a Lourdes in treno, vestita come una demente. Del cibo pessimo, tanti abbracci, l'incubo delle mestruazioni, un ragazzo down di Spoleto che mi ha dato tanti baci, una tenerezza e un calore speciali per quel cromosoma in più...”
Quali gli scrittori prediletti, coloro che hanno influito sulla sua formazione? “I russi Tolstoj, Dostoevskij, Celine, Zola”.

Qual è (e perché) il libro al quale è più affezionata?

“Dei miei libri o in generale? Se la seconda opzione Germinal e L'Assommoir di Zola. Dei miei, Cuore di mamma”.

Tornando al suo “Le donne perdonano tutto tranne il silenzio”, sceglierebbe per congedarsi dai lettori, così da stuzzicarli ulteriormente, uno dei passi più rilevanti?

“Il giudizio universale per opera dei cagnolini e l'ultima riga quella in cui c'è un passo dalla poesia “Dalla torre” di Mario Luzi. Fila anni luce misteriosi, fila un solo destino in molte guise, dice: “guardami sono la tua stella” e in quell’attimo punge più profonda il cuore la spina della vita”.  

GRAZIA CALANNA

 

 

giovedì 13 dicembre 2012


Università Nazionale Autonoma del Messico

“Allakatalla, quando la parola si fa poesia e la poesia canto”

Alfio Patti: “Ho ripercorso ottocento anni di letteratura, dalla scuola siciliana ad oggi”

 

Intervista di Grazia Calanna

 

“Allakatalla, quando la parola si fa poesia e la poesia canto”. È il titolo del corso tenuto da Alfio Patti, poeta, studioso della poesia siciliana colta e popolare all’Università Nazionale Autonoma del Messico (Unam), Dipartimento di Lettere Italiane della cattedra straordinaria Italo Calvino.

- In che modo sono state articolate le lezioni?

Con l’ausilio di una chitarra d’eccezione, usata da Joan Manuel Serrat, celebre cantautore spagnolo-catalano, prestatami per l’occasione,  e di un semplice powerpoint, ho ripercorso, a volo d’uccello, ottocento anni di letteratura a partire dalla scuola siciliana del Regale Solium di Federico II di Svevia fino ai giorni nostri. Le lezioni sono state divise in una parte esclusivamente teorico-didattica e un’altra artistico-musicale con canti e cunti attinenti alla lezione del giorno. Nella prima ho parlato della scuola poetica siciliana, dei poeti-giuristi e della poesia cortese e amorosa. Di seguito, ho tracciato il percorso del genere  “Contrasto”, caratteristico della letteratura latina, medievale e romanza tanto diffuso in Sicilia. E, ancora, i poeti dal 1400 al 1600, con particolare riferimento a Bartolomeo Asmundo, Girolamo D’Avila, Giovanni Nicolò Rizzari e al principe dei poeti siciliani, Antonio Veneziano. La lezione ha visto l’intervento a sorpresa della prof.ssa Mariapia Lamberti, la quale ha parlato dell’amicizia del Veneziano con Miguel Cervantes. Apprezzato anche l’incontro dedicato all’ultimo petrarchista siciliano, Giuseppe Nicolosi Scandurra e alla poetessa Graziosa Casella, autrice catanese della prima metà del ‘900. Entrambi hanno cantato l’amore e la natura; il primo in modo platonico e ideale, la seconda in modo concreto e passionale. Non sono stati trascurati i poeti del Novecento, con particolare riferimento a tre grandi della nostra poesia: Vincenzo De Simone, parnassiano per eccellenza, definito il D’Annunzio di Sicilia; Ignazio Buttitta, il quale parlò del contingente e del precario con le sue poesie civili e sociali;  Mario Grasso, poeta fuori dal coro, tra simboli e polemiche, fino a Gabriella Rossitto (l’amore traslato), Marco Scalabrino (lo sperimentalismo) e al sottoscritto - in cui la forza della parola si fa scudo e spada”.

- Tra tanti, quali i temi che hanno destato maggiore interesse?

Quelli dell’amore e dell’ingiustizia sociale. Ecco perché nella lezione sui cantastorie, il “Lamentu ppi Turiddu Carnavali” e “La Barunissa di Carini” hanno attraversato i cuori degli astanti. I giovani messicani, assetati di conoscenza, hanno palesato verso la letteratura siciliana grande rispetto e ammirazione. Certo, occorre saper porgere la disciplina con garbo e metodologia ma soprattutto credendoci fino in fondo”.

- Quale la singolarità di questo corso?

“Il rapporto tra siciliano e spagnolo, non solo attraverso le parole ma anche attraverso il costrutto delle frasi e delle espressioni. Per esempio: il nostro “non diri mancu pìu” (non aprir bocca), in spagnolo si dice “no decir no pìo”; come quando una cosa fa male alla salute noi diciamo “mi fa dannu” in spagnolo “me hace daño”. Così per le espressioni “mi affaccio da mia madre” o “Gesuzzu”, allo sternuto del bambino… Ho parlato in siciliano con molta disinvoltura e i ragazzi, tra i migliori del corso, coglievano al volo le battute”.

- La poesia, quella autentica, è generosa, sa donarsi pienamente fino a divenire un tutt’uno col lettore; schiude, senza posa, quella girandola di identificazioni che la rendono nostra per sempre. Questa premessa per avviare una riflessione sul valore odierno della poesia e sul ruolo che ha (o dovrebbe avere) il poeta.

“Credo che oggi, più di ieri, il poeta abbia un ruolo determinante nella società. I poeti non hanno fucili né cannoni ma incutono un certo timore ai “poteri forti” perché hanno la parola che arriva nel profondo delle persone e principalmente dei giovani che, educati alla non violenza e alla democrazia, vogliono riappropriarsi di quel dialogo che viene loro negato. Ecco perché scrivono poesia. A me la poesia ha dato più di un’amante fedele. È stata rifugio e pulpito, unico mezzo per comunicare in una società in cui l’uomo cerca l’uomo fra una verità virtuale e un’altra reale”.

GRAZIA CALANNA

martedì 6 novembre 2012


«Non scriverei versi se non credessi nel genere umano»

La Sicilia Cultura 05.11.2012

Intervista al poeta Giovanna Frene

a cura di Grazia Calanna

 

Scrivere poesia. Dimorando l’esistenza. Meditando il dolore. Ghermendo la storia. La storia, estensione (ricorrente) in cui pensiero e azione quadrano, e con essi compimento, testimonianza, interpretazione, casualità. È questo l’assunto che regge “Il noto, il nuovo” dell’autrice veneta Giovanna Frene (Transeuropa Edizioni) con la quale abbiamo amabilmente conversato.

Quali i poeti dell’anima?

Saffo, Emily Dickinson, Edgar Allan Poe, Amelia Rosselli, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Francesco Petrarca, Charles Baudelaire, John Donne; più tardi, Paul Celan. Zanzotto è stato il poeta cardine nella mia formazione, per la vastità delle sue scoperte poetiche, per la sua intelligenza, per il suo ascolto del mondo; ricordo ancora che la sua prima lettura fu una vera e propria esperienza estetica nuova, e non è stato facile staccarmi poi da lui e iniziare il mio personale tragitto nella poesia – di sicuro questo distacco è stato un superamento, in senso hegeliano, con tutti i dolori di una separazione”.

Qual è l’insegnamento principe del poeta diletto?

“È la sua estrema attenzione al linguaggio, nei suoi due aspetti (cosa e come dire) - cosa che non è stata molto recepita, devo dire, nella poesia italiana successiva a lui, troppo infagottata su se stessa per potersi aprire al rischio inaudito di mettere in corto circuito contenuto e forma. Il rischio messo in atto per primo da Zanzotto però, anche se sembra l'opposto, è prima di tutto inerente al contenuto, a cui di conseguenza sono seguite parole e strutture grammaticali adeguate: esiste infatti in Zanzotto un limite a ciò di cui la poesia può trattare? No. Ecco il punto. Sono riflessioni che sto maturando ultimamente, perché invece da giovane ero stata attratta dall'estremo brillio dalla superficie, dal significante della sua poesia, così instabile, baluginante, frantumato, scisso nella  profondità stessa del dire. La scissione del textus zanzottiano è prima di tutto nel contenuto: forse è lui il primo poeta postmoderno italiano”.

Per Zanzotto la poesia “è sempre più di attualità perché rappresenta il massimo della speranza, dell'anelito dell'uomo verso il mondo superiore”, per la Frene?

Vorrei soffermarmi su queste parole di Zanzotto: ora che è morto, risuonano anche pregne di una certa religiosità (e lo dico con cautela, anche perché non vuol certo dire religione), perché Andrea era prima di tutto un uomo che aspirava alla giustizia e al bene. Che altro è la poesia se non questa, poco segreta e platonica, aspirazione? Per me la poesia, e l'ho già detto altre volte, rappresenta il mio modo di vedere e conoscere il mondo; non sono esplicitamente ottimista, ma devo dire che non scriverei se non sperassi che questo linguaggio così speciale e fluido possa  attraversare il freddo metallo spazio-tempo della violenza umana, e depositarsi sul sostrato positivo che permette al genere umano di sussistere nonostante tutto”.

Può esistere poesia malgrado esista una frattura insanabile tra pensiero/scrittura e azione/condotta? “La poesia può di fatto esistere malgrado tutto, e specialmente malgrado chi la scrive. Seguendo quanto dice Proust, c'è di fatto una bella scissione tra scrittore e essere vivente, anche e specialmente per chi vede tutto da esterno: il nostro prossimo. Propenderei poi per lasciare aperto il dubbio su quale di queste due dimensioni inglobi l'altra, o se siano due insiemi che si intersecano, o se siano due monadi che si sfiorano”.

“Mentiamo in ogni momento a noi stessi: / viene dall'atto dell'abrasione il nesso di colpevolezza, / dal non mantenere inalterato l'abominio / comunque compiuto”. Potrà (in che modo) il nuovo scompagnarsi dal noto?

Il  nuovo nella storia è la medesima violenza che si reitera, e dunque rimaniamo nell'ambito del noto, cambiando solo forme, soggetti e oggetti. Tuttavia, la direzione in cui ultimamente sta andando il mio pensiero mi porta a dire che ci sono eventi che appunto sono nuovi, e che la loro novità sia irriducibile a qualsiasi elemento noto. La Shoah è uno di questi eventi. Il poeta  può e deve ancora nominare un evento, o evocarlo, per ridare forma a fantasmi che spesso la società non vuole più vedere”.                        

GRAZIA CALANNA

 

 

 

giovedì 11 ottobre 2012


Intervista alla poetessa Margherita Rimi

Le voci dei piccoli ci interrogano sul perché del male

La Sicilia Cultura 10.10.2012

di Grazia Calanna

 

“I tempi dei bambini / mi fanno zoppicare / mi segnano col dito // E quando toccano le cose / l’aria comincia a respirare a disegnare / la sua punteggiatura”. Versi di lucente spontaneità. Versi essenziali. “Senza il logopedico discorso”, risananti. Versi incarnanti il pensiero di fanciulli offesi dall’adulta perfidia. Versi di Margherita Rimi, autrice di “Era farsi”, Autoantologia  (1974 - 2011), edizioni Marsilio. Poetessa, neuropsichiatra infantile, svolge un’intensa attività finalizzata alla cura e alla tutela di fanciullezza e adolescenza. Offre sfumature dedicate, oltreché all’infanzia (nelle sezioni “I tempi dei bambini” e “Le voci dei bambini”), a molteplici personaggi tra i quali Pirandello, Sciascia, la poetessa  rumena Ana Blandiana, la scrittrice ungherese Agota Kristof. E, ancora, alla creatività della lingua siciliana, con le liriche in vernacolo, “Di naca a naca / di luna a luna / si coci sta terra // Si conza d’ùmmira / agnuna agnuna”, nonché, teneramente, alla propria terra, la Sicilia, “dalle radici del mandorlo di notte a questo vento / da dove esiste tutto questo mare”.

Nel suo volume protagoniste le voci dei più piccoli e, insieme, il quesito “radicale e doloroso sul perché del male”. Considerato (citiamo il poeta Vannuccio Barbaro), che le parole giuste al momento giusto possono avere  un potere enorme, qual è la migliore (la più onesta) risposta adulta?

“Sono le voci dei bambini che ho voluto mettere in evidenza. Sono le voci dell’infanzia che ci parlano, che ci pongono interrogativi: fra questi quello “radicale e doloroso sul perché del male”, come scrive Daniela Marcheschi nella prefazione. Il male, la sua verità tangibile nella realtà di quei bambini che hanno subito malattie e violenze. I bambini sanno rappresentare quello che vivono, quello che fanno: le loro paure, il dolore, la loro gioia e non solo con le parole, ma anche con i disegni, con il gioco, con il corpo. L’adulto ha l’obbligo di farsene carico. Quindi la parola è necessaria per comunicare, per “curare”, ma, altrettanto, sono necessarie tutte le altre forme di linguaggio non verbale per comprendere e aiutare i bambini”.

Quali i ricordi legati alla primissime poesie per i “suoi” piccoli?

“Sono ricordi legati ai loro volti, alla sofferenza, alle storie raccontate nei loro disegni. E poi alle loro parole imperfette, alle parole di una lingua irregolare. Alla loro concreta semplicità. Ho pensato ai bambini che subiscono violenze. Ai bambini feriti dai grandi. Era giusto che la poesia accogliesse le loro voci”.

“Siamo rimasti in pochi / a ricalcare gli occhi sulla foto / a non giudicare per quella / discordanza”; in che modo possiamo, a principiare da quei pochi, imboccare  la via per la “guarigione”?

“Ha citato una poesia del libro “Su due rotelle”, dedicata “ai bambini che devono guarire”. È questa la  speranza, quella che sta nella cura e nel prendersi cura da pare dell’adulto, in questo trovare senso. È la speranza che tutti i bambini possano “mettersi in piedi”, avere una vita dignitosa, nonostante la malattia”.

“Alcuni dicono che / quando è detta, / la parola muore. / Io dico invece che / proprio quel giorno / comincia a vivere”. Con la Dickinson per domandarle, assodato il ruolo pregnante della parola nei suoi versi,  una riflessione in merito.

“Penso anch’io, con Emily Dickinson, che la parola non muore quando viene detta, muoiono le parole che vengono svuotate di significato, quelle che vengono rese false. Le parole autentiche possono essere conservate per sempre dentro di noi, perché ci toccano nel profondo e ci avvicinano alla bellezza. Queste sono parole che  influenzano i nostri comportamenti emotivi, i nostri pensieri. È questo quello che fa la parola poetica, ci migliora, ci rende più sensibili, più pensanti. La parola, quando il poeta la scrive, non muore ma trova una sua conclusione”.

Per Cesare Viviani “La poesia è luce. Dei paesaggi, dei movimenti, dei miraggi e degli inganni, delle favole e degli affanni, resta un insieme di luci che, alla fine, sono l’unica possibilità di amare e ricordare”, qual è il suo pensiero?

“Sì, si può immaginare la poesia come una luce sul mondo, anche quando questo è buio. Soprattutto quando questo è buio”.

Nella carezza ironica del mondo, quale sogno dobbiamo preservare?

“Ciò che conta è tenere sempre dentro se stessi il sogno, non abbandonarlo mai, non fare che rimanga solo. È attraverso questo sogno che il bambino e l’adulto si ricongiungono. Si ritrovano per diventare grandi”.

Scelga una poesia per salutare i lettori.

“Era farsi, ovvero quella che da il titolo al libro (“Ai piedi del letto il tempo non passava / Era farsi grande raccontare una storia  / E la storia non era più una storia / era farsi padre // Il suo disegno non era farsi grande / non era orizzonte la sua mano // Il dolore era farsi carta / farsi carta i troppi desideri / Il suo mondo era grande ed impreciso / la forma del suo cranio / una farfalla”), rappresenta il divenire dell’esperienza umana. Come scritto in prefazione, scandagliare le voci del mistero stesso dell’«era farsi», del divenire degli anni in direzione dell’età adulta, e dell'umana ricchezza di un simile processo di crescita e sviluppo, pur fra mille interruzioni e riprese”.

GRAZIA CALANNA

martedì 18 settembre 2012


Intervista al poeta Eugenio De Signoribus

“La poesia è inerme, la lingua dei versi è cambiamento”

di Grazia Calanna

“Ora percorriamo malfermi / un solco tra ingiurie e promesse // un ossessivo ciarlume / occupa ponti indifesi // batte sui timpani offesi / come colpi di frusta // così barcollanti cerchiamo / le tracce, le nostre, le stesse”. Parole terse, taglienti, fotografe di un mondo pericolante che abbisogna benevolenza, “se ci fosse davvero / la grazia d’un rinascerci // in uno scarto del tempo / nel sonno della polveriera // popoli di lacerati / sorgerebbero da ogni confino”. Versi di Eugenio De Signoribus, vincitore, sezione poesia, del XLIII  Premio Letterario Brancati Zafferana, con “Trinità dell’esodo”, edizioni Garzanti. L’autore propone un percorso articolato includente testi scritti dal 2005 al 2010. Riprende i nodi tematici principali, enunciati dal 1989 nei precedenti libri, in particolare: “Istmi e chiuse” (1996), “Principio del giorno” (2000) e “Ronda dei conversi” (2005). Un trittico densissimo nel quale risalta l’armonioso contrasto tra la ferocia del mondo reale, “Lo svelamento del male cancella via ogni certezza”, l’illusoria speranza, “Ma il dolore resta sopra ogni cosa”, e “la trama infinitesimale” di un immaginario lucente, “finché non sia reperito il verbo nel vero inizio / e introvato il muro del pianto”.

Del suo trittico - Evo paterno, Cruna filiale, Rua dello spirito – qual è, volendo indicare una possibile rotta, l’assunto cardine?

“Le tre sezioni sono strettamente connesse: la prima, indica il tempo in atto e accenna agli errori e orrori che hanno portato l’umanità a questa strozzatura epocale; la seconda, vorrebbe essere il racconto di un’utopia, o meglio la visione di un nuovo inizio; la terza, è la voce interiore di una via possibile per continuare a stare al mondo. In questa, si potrebbe individuare una direzione, un progressivo disarmo del proprio io come frutto di un ascolto radicale della propria coscienza”.

“È l’era melmosa / della memoria // è l’era della ressa / impietosa // è l’era del sangue / fino agli occhi… // che non mi tocchi / il suo sguardo bianco! // la sua orribile mano / non mi tocchi!”, con la sua “È l’era melmosa” per chiederle se (in che modo) l’esodo può divenire cammino di redenzione.

“Da come il mondo è stato indirizzato, l’esodo, inteso qui come rivoluzione interiore e mai come fuga, potrebbe riguardare molti individui, potrebbe cioè tracciare un diverso cammino, se non una redenzione. Naturalmente, è più probabile che ripercorra la propria vita chi è toccato dal senso di colpa… ma anche chi ha il dono di un sentire profondo e onesto non può che dibattere in sé, cercare un’uscita differente, praticare il bene comune. Di questi nuovi o rinnovati umani ha estremo bisogno il mondo: dal luogo domestico al più vasto”.

“Forse non ti riconosco, voce / che parli da un indistinto volto // voce che cerco di guardare / alzando gli occhi sugli occhi  // voce che cerco di ascoltare / nel battere del suono”, la poesia può (in che modo) giovare al recupero della nostra (essenziale) capacità d’ascolto? 

“L’esperienza della poesia è, almeno per me, esperienza d’ascolto. Del grande fuori e di sé: di come  il travaglio del vivere altrui entri nel mio… e come il mio s’investa in quello. E come questa assunzione del drammatico vero possa tradursi in lingua poetica, cioè in testimonianza. Questa può essere più forte e credibile solo se la voce che la dice si è purificata, è prima di tutto attendibile a se stessa”.

È  possibile penetrare il vissuto per riconsegnarlo, inermi, in forma poetica?

“La poesia esprime, di fatto, una condizione di inermità: l’unico combattimento è con la lingua poetica, che deve essere pensata, attesa e inventata, per superare l’epoca, per resistere”.

Per Salvatore Quasimodo “la poesia è la rivelazione di un sentimento che il poeta crede personale e che il lettore riconosce come proprio”, qual è la sua più intima definizione?

“Concordo con Quasimodo. La poesia  ha bisogno di corrispondenza. Ha bisogno di interlocutori. Magari uno, o una sua proiezione, eticamente forte, il cui riconoscimento puntella, fa vivere, la sempre più indistinta presenza del poeta nel caos agonistico di questo evo”.

Qual è il ricordo più caro legato alla sua primissima poesia?

“Non ho un ricordo dei primi versi. Ho solo il ricordo di un grande tempo, insieme d’attesa e di nostalgia: attesa di comprendere  lo sterminato fuori e l’acuta nostalgia di quanto avevo già perduto e che avrei perduto, sopravvivendo”.

Quali i poeti dell’anima e, a grandi linee, sin dalla giovinezza, le letture vitali?

“Dovrei fare tanti nomi. Non appartengo alla categoria di chi esclude ma di chi rispetta l’altro, anche per un solo verso”.

Scelga una sua poesia per salutare i lettori.

“Trinità dell’esodo è un libro per sequenze. Mi è difficile estrarne un testo. Volentieri però mi provo a suggerire quello di pag. 118, “forse non ti riconosco, voce, / perché in te non rinasco // ma mi dibatto e commuovo / per il balbettìo dei tuoi occhi // per l’intermittente lumìo / d’un disperato segnale // come da un corpo separato / ma vivo ancora… // e ti ascolto e ti ascolto / e verso te m’attiro // come una vocale / dentro una parola”. Esprime il mio stato di soglia, tra dubbio e desiderio di affidamento, tra pudore e accoglienza, che riguardano non solo la voce interiore ma la mia stessa poesia”.

GRAZIA CALANNA

 

 

 

martedì 11 settembre 2012

Nei versi delle donne il ritmo circolare dall'alba al tramonto


(LA SICILIA 13.08.2012 recensione di Grazia Calanna


sull'antologia "Nuovi poeti italiani 6" Einaudi - foto di Laura Callegaro )





Forte tensione conoscitiva e fiducia nello strumento linguistico permeano, come peraltro rilevato dalla curatrice Giovanna Rosadini, i versi delle scrittrici riunite nella sesta antologia Einaudi “Nuovi poeti italiani”. Speranza e disincanto, ricerca e smarrimento, spiritualità e concretezza, rivelazioni e silenzi, indugio e azione, spasimo e letizia, armoniosamente, si alternano, quasi si confondono, in un gioco impalpabile che ricorda l’alternanza incessante dell’alba al tramonto. Alida Airaghi medita, declinandolo da quello intimo, sul senso del tempo cosmico, “un giorno non qualunque / di un non qualunque anno / pronta a svelarmi inganno e disinganno”.Daniela Attanasio, per la quale la poesia è la realtà vista da un occhio aperto; come ogni forma d'arte non fa distinzione di genere”, perlustra le origini sorgive e istintuali dell’essere, “E sono ancora dentro quella / nostalgia di vita che è una nascita”. Antonella Bukovaz scruta l’identità concepita come appartenenza territoriale e linguistica, “cerco un’altra materia / a sostenere la geografia che porto / tatuata sotto la pianta dei piedi”. Maria Grazia Calandrone per mezzo del verbo, palesa, all’unisono, la tangibilità delle cose e l’indissolubilità dei legami, “Io in una solitudine perfetta porto / in me muro con crepe / nelle quali scorre / purissima la gioia”. “La poesia è compassione. Il poeta scrive da una solitudine corale, scrive mentre tenta di diventare tutti. La poesia delle donne credo abbia finito per trarre vantaggio dalla sua storica emarginazione dal mondo delle lettere: l’isolamento imposto si è rovesciato nell’esito di una maggiore libertà. È inoltre più aderente al dato biologico (non biografico!), in qualche modo trasforma l’intera esistenza in parola. Dunque - sostiene la Calandrone -,il risultato di questo volume è di voci così disomogenee perché la libertà fa differenza”. Chandra Livia Candiani, cinge un sinuoso cammino spirituale, “Sono matassa di smarrimenti / senza disegno, sono calce / viva sotto pelle / di tamburo che vibra / a ogni sfioramento”. Gabriela Fantato, risalta la comunanza dell’esistere, “Le cose sanno tutto, sanno / l’inizio e la fine anche l’indifferenza”. Giovanna Frene, liricizza la propria lucida (agghiacciante) consapevolezza, “lo spirito è immobile, la carne scivola. ogni / volta più in basso e trascina con sé / il pensiero e le cose decadono avvolte / in un ammasso di morte”. “In questo momento - dichiara la Frene -, poesia è la mia visione del mondo, il mio strumento di conoscenza, l'occhio con cui guardo e vedo, la mia ragione stessa di esistere. La poesia scritta da donne - si sa che non amo la definizione di 'poetessa', per non dare giusto il destro ai detrattori dell'operato delle donne in ogni campo -, ha un grande valore nella società contemporanea. Fare poesia per una donna è fare politica, oggi, proporre la propria differenza più che altro storica, ma la propria uguaglianza culturale”. Isabella Leardini, instilla sintonie d’amorosi sensi, “Prego ancora una corsa dei giorni, / un tocco casuale che apra il cielo / nel gioco che cambia in abbraccio”. “La poesia è soprattutto dire la verità nel modo più disarmato e rigoroso possibile, una verità anche piccola e personalissima, ma che abbia in sé una tensione universale. È un gesto di attenzione assoluta nella sostanza come nella forma; mette radici in qualcosa di innato e difficilmente definibile e dominabile che chiamerei, più che ispirazione, visione - aggiunge la Leardini -. Come i poeti, le poetesse raccontano la propria esperienza e verità con esiti diversi, più o meno buoni. La differenza non è nella riuscita letteraria, ma nella natura stessa. La varietà di questa antologia dimostra che non c'è una poesia femminile, ma ci sono buone poetesse molto diverse tra loro”. Laura Liberale, “penso alla poesia come a una possibilità di trascendimento dei generi, a un luogo di nudità indifferenziata di ogni essere umano”, e Rossella Tempesta, “la poesia mi serve a ritrarre ogni aspetto dell’esperienza reale, anche il più insignificante può contenere paradigmi universali per comprendere meglio la ragione e il sentimento che animano il Tutto”, scandagliano le relazioni affettive primarie, individuandone, rispettivamente, singolarità (“Nemmeno da morente / vuoi rinunciare al ruolo / rifiuti la muta di una pelle / ormai inservibile / fino all’ultimo ti ribadisci”) e consuetudini (“ Eravamo così povere d’amore / che la dolcezza dei piselli lessi / ci commoveva fino al pianto”).Laura Pugno caldeggia, malgrado la corporeità del male, l’unanime opportunità di giocondità e pienezza, “eppure sei salvato, / per il riflesso degli alberi / sei guidato al nuovo”. Non ultima, Franca Mancinelli aduna versi fioriti intorno mutevoli visioni itinerarie, “qualcosa in noi respira / soltanto nel trasloco: / gioia per ogni terra cancellata”. “I versi sono la mia terra. La poesia è il continente d’aria che abitiamo tra un naufragio e l’altro delle nostre esistenze. La poesia è così viva che può sembrare una presunzione contenerla in una forma definitiva. E, una volta compiuto questo difficile e duro lavoro, ci si trova a guardarla con lo stupore e la pena con cui si torna a fare visita agli animali in gabbia, augurandosi - conclude la Mancinelli - che non si ammalino, che la loro esistenza continui il più possibile felice, adattandosi ai confini di quel nuovo spazio”.


GRAZIA CALANNA
La poetessa Elena Buia Rutt, articolo intervista di Grazia Calanna
LA SICILIA 31.07.2012

Intervista alla poetessa Letizia Dimartino a cura di Grazia Calanna -
LA SICILIA 28.07.2012


Nei versi delle donne il ritmo circolare dall'alba al tramonto


(LA SICILIA 13.08.2012 recensione di Grazia Calanna


sull'antologia "Nuovi poeti italiani 6" Einaudi - foto di Laura Callegaro )

lunedì 13 agosto 2012



Nei versi delle donne il ritmo circolare dall'alba al tramonto
(LA SICILIA 13.08.2012 recensione di Grazia Calanna
sull'antologia "Nuovi poeti italiani 6" Einaudi - foto di Laura Callegaro )

Forte tensione conoscitiva e fiducia nello strumento linguistico permeano, come peraltro rilevato dalla curatrice Giovanna Rosadini, i versi delle scrittrici riunite nella sesta antologia Einaudi “Nuovi poeti italiani”. Speranza e disincanto, ricerca e smarrimento, spiritualità e concretezza, rivelazioni e silenzi, indugio e azione, spasimo e letizia, armoniosamente, si alternano, quasi si confondono, in un gioco impalpabile che ricorda l’alternanza incessante dell’alba al tramonto. Alida Airaghi medita, declinandolo da quello intimo, sul senso del tempo cosmico, “un giorno non qualunque / di un non qualunque anno / pronta a svelarmi inganno e disinganno”.Daniela Attanasio, per la quale la poesia è la realtà vista da un occhio aperto; come ogni forma d'arte non fa distinzione di genere”, perlustra le origini sorgive e istintuali dell’essere, “E sono ancora dentro quella / nostalgia di vita che è una nascita”. Antonella Bukovaz scruta l’identità concepita come appartenenza territoriale e linguistica, “cerco un’altra materia / a sostenere la geografia che porto / tatuata sotto la pianta dei piedi”. Maria Grazia Calandrone per mezzo del verbo, palesa, all’unisono, la tangibilità delle cose e l’indissolubilità dei legami, “Io in una solitudine perfetta porto / in me muro con crepe / nelle quali scorre / purissima la gioia”. “La poesia è compassione. Il poeta scrive da una solitudine corale, scrive mentre tenta di diventare tutti. La poesia delle donne credo abbia finito per trarre vantaggio dalla sua storica emarginazione dal mondo delle lettere: l’isolamento imposto si è rovesciato nell’esito di una maggiore libertà. È inoltre più aderente al dato biologico (non biografico!), in qualche modo trasforma l’intera esistenza in parola. Dunque - sostiene la Calandrone -,il risultato di questo volume è di voci così disomogenee perché la libertà fa differenza”. Chandra Livia Candiani, cinge un sinuoso cammino spirituale, “Sono matassa di smarrimenti / senza disegno, sono calce / viva sotto pelle / di tamburo che vibra / a ogni sfioramento”. Gabriela Fantato, risalta la comunanza dell’esistere, “Le cose sanno tutto, sanno / l’inizio e la fine anche l’indifferenza”. Giovanna Frene, liricizza la propria lucida (agghiacciante) consapevolezza, “lo spirito è immobile, la carne scivola. ogni / volta più in basso e trascina con sé / il pensiero e le cose decadono avvolte / in un ammasso di morte”. “In questo momento - dichiara la Frene -, poesia è la mia visione del mondo, il mio strumento di conoscenza, l'occhio con cui guardo e vedo, la mia ragione stessa di esistere. La poesia scritta da donne - si sa che non amo la definizione di 'poetessa', per non dare giusto il destro ai detrattori dell'operato delle donne in ogni campo -, ha un grande valore nella società contemporanea. Fare poesia per una donna è fare politica, oggi, proporre la propria differenza più che altro storica, ma la propria uguaglianza culturale”. Isabella Leardini, instilla sintonie d’amorosi sensi, “Prego ancora una corsa dei giorni, / un tocco casuale che apra il cielo / nel gioco che cambia in abbraccio”. “La poesia è soprattutto dire la verità nel modo più disarmato e rigoroso possibile, una verità anche piccola e personalissima, ma che abbia in sé una tensione universale. È un gesto di attenzione assoluta nella sostanza come nella forma; mette radici in qualcosa di innato e difficilmente definibile e dominabile che chiamerei, più che ispirazione, visione - aggiunge la Leardini -. Come i poeti, le poetesse raccontano la propria esperienza e verità con esiti diversi, più o meno buoni. La differenza non è nella riuscita letteraria, ma nella natura stessa. La varietà di questa antologia dimostra che non c'è una poesia femminile, ma ci sono buone poetesse molto diverse tra loro”. Laura Liberale, “penso alla poesia come a una possibilità di trascendimento dei generi, a un luogo di nudità indifferenziata di ogni essere umano”, e Rossella Tempesta, “la poesia mi serve a ritrarre ogni aspetto dell’esperienza reale, anche il più insignificante può contenere paradigmi universali per comprendere meglio la ragione e il sentimento che animano il Tutto”, scandagliano le relazioni affettive primarie, individuandone, rispettivamente, singolarità (“Nemmeno da morente / vuoi rinunciare al ruolo / rifiuti la muta di una pelle / ormai inservibile / fino all’ultimo ti ribadisci”) e consuetudini (“ Eravamo così povere d’amore / che la dolcezza dei piselli lessi / ci commoveva fino al pianto”).Laura Pugno caldeggia, malgrado la corporeità del male, l’unanime opportunità di giocondità e pienezza, “eppure sei salvato, / per il riflesso degli alberi / sei guidato al nuovo”. Non ultima, Franca Mancinelli aduna versi fioriti intorno mutevoli visioni itinerarie, “qualcosa in noi respira / soltanto nel trasloco: / gioia per ogni terra cancellata”. “I versi sono la mia terra. La poesia è il continente d’aria che abitiamo tra un naufragio e l’altro delle nostre esistenze. La poesia è così viva che può sembrare una presunzione contenerla in una forma definitiva. E, una volta compiuto questo difficile e duro lavoro, ci si trova a guardarla con lo stupore e la pena con cui si torna a fare visita agli animali in gabbia, augurandosi - conclude la Mancinelli - che non si ammalino, che la loro esistenza continui il più possibile felice, adattandosi ai confini di quel nuovo spazio”.
GRAZIA CALANNA

domenica 5 agosto 2012


Workshop di Scrittura Creativa
“Nei dintorni del dire”
Efficacia comunicativa, informazione e comunicazione
A cura di Grazia Calanna


Durata: 28-29-30 agosto
Orario: dalle 16.30 alle 19.00
Quota associativa:15 euro
Classe: max 15 persone

Link al gruppo del workshop http://www.facebook.com/groups/372969106105220/
Contatto di riferimento 3494016008

Descrizione workshop: Il workshop riguarderà principalmente le diverse tipologie testuali. Dall’articolo giornalistico al testo argomentativo si passerà per quello descrittivo partendo dall’immagine per arrivare alla scrittura, non mancherà il testo narrativo letterario in prosa. Ogni partecipante si cimenterà e sperimenterà queste diverse tipologie testuali creando degli elaborati che saranno discussi, commentati e arricchiti dall’esperinza personale del docente. La parte pratica di scrittura e il lavoro sul campo impegnerà i partecipanti per tutte e tre le giornate. Infine è prevista la realizzazione del Numero 0 Rivista “ZUM!MIT FEST 12” con una selezione di testi e/o interviste realizzate dai corsiti nel corso dei tre giorni.

Grazia Calanna è nata a Catania. Laureata in Scienze Politiche, indirizzo Politico-Internazionale, dal 1989 esercita attività giornalistica. Direttore Responsabile (nonché ideatore) del periodico culturale l’EstroVerso (www.lestroverso.it), dal 2001 collabora con il quotidiano La Sicilia. Formatore in “Scrittura professionale, Editing e Comunicazione didattica”, ha insegnato al C.I.S. (Corso Italiano Scritto – Facoltà di Lettere di Catania) e LAB.I.S. (Laboratorio Italiano Scritto - Università degli Studi di Catania). Presiede l’associazione culturale Estrolab con la quale cura Penne EstroVerse, incontri letterari itineranti, e i “Laboratori dell’Estro”, corsi di formazione in scrittura specialistica e creativa. Crono Silente (edizioni Prova d’Autore) è il suo primo libro di poesia.

Sotto il link dell’intervista che Grazia ha rilasciato a Rai letteratura.
http://www.letteratura.rai.it/articoli/grazia-calanna-lestroverso/14121/default.aspx

Per ulteriori Info e Contatti:


cell: 3470478389 3494016008

martedì 31 luglio 2012




“Ti stringo la mano mentre dormi”

 di Elena Buia Rutt (fuorilinea).



Nero puro della notte, sonno bianco, mare calmo grigio verde, pesce rosso, bianca di felicità, bellezza umile e bianca, parole ancora rosse in faccia, stupido rosa, sassi bianchi, viali azzurri, arancione la casa si accuccia, erba verde, questione di rosso, di giallo, grigio su grigio. Con le proprie singolari sfumature, l’emozione affresca la vita e il suo intorno. “Anime pure e pensose quelle che amano i colori”, il pensiero di John Ruskin sovviene leggendo “Ti stringo la mano mentre dormi” di Elena Buia Rutt (fuorilinea). In un tempo rotondo, sguardo materno coglie l’incessante divenire del presente incarnato da “parole scalmanate / che ridendo corrono / su un pezzo di foglio”. La fede, “spazio d’aria / che quando / lo attraversi / sorridi piano / come nevicasse”, zampilla immacolata di verso in verso, “le palme delle mani / radici / rivolte verso il cielo”, di cuore in cuore, finanche ricordando la scrittrice olandese Etty Hillesum, “Non c’è riparo: / se non a braccia aperte / farsi cima o scogliera / e quando il vento trafigge / placarlo / grata / nell’abbraccio”. La fede, cito Mario Luzi, è un fuoco che il suo ardore rigenera, “librarsi così in alto / nel cielo / da non potere più essere visto, / ma solo rimpianto / e poi ammirato / per la leggerezza / per la libertà / con cui va incontro all’eternità”. È incanto, energia, “il fruscio della piuma / che rompe la pietra”, leggiamo rievocando Bartolo Cattafi (“un filo di paglia mi può trafiggere”). “Il sermo cotidianus è teso al massimo della propria capacità espressiva. L’effetto più evidente è la forza di generare una sensazione di intensità legata a gesti semplici – si legge nella prefazione di Antonio Spadaro”.

Quando ha iniziato a scrivere poesie? “Con la nascita dei miei bambini: mi sono improvvisamente trovata in balia dell’urgenza di dar voce a un’intuizione di stupore, di meraviglia. Il vivere e il morire non sono stati più un gioco della mente, ma si sono incarnati (letteralmente) nel mio corpo: la vita era dentro di me e la morte, da quel momento in poi, mi avrebbe riguardata non solamente dal punto di vista intellettuale - dichiara Elena Buia Rutt”.

Cosa significa fare poesia? “Toccare l’essenzialità dell’esperienza: riscoprire la realtà, saperne discernere i fondamenti. Vuol dire vedere come ogni nostro gesto, anche il più prosaico, banale, quotidiano, finito esprima un qualcosa di più, un valore eccedente, una dimensione che lo supera: porti insomma con sé l’impronta, la traccia dell’infinito e del trascendente”.

Prodigioso poetare proteso, “tra l’alloro e il biancospino”, all’ascolto (festoso) dello scampanio esistenziale, “Irresistibile il suono dilaga, / attraversa l’erba, il ferro, noi. / E ci trasforma. / Tutt’uno con la vita / che non muore”.

GRAZIA CALANNA

martedì 26 giugno 2012


Da mani mortali di Biancamaria Frabotta (Mondadori)
recensione di Grazia Calanna




“Sono come le pulci, i poeti / acquattati nel pelo del mondo. / Invisibili, se ne stanno passivi / nelle ore dolci dei vivi / ma in un tale loro modo / e così a caso dispersi / fra i tanti, singoli vanti. / Oh, se mordono, nei loro nidi / bisogna cercarli / stanarli dai loro nascondigli”. Versi intimi di Biancamaria Frabotta, schiudono “Da mani mortali”, recente silloge Mondadori che, con qualche variante, ripropone, oltre al capitolo omonimo al libro, “Gli eterni lavori” e “I nuovi climi”. L’amore per il creato con il quale colei che scrive ha un legame indissolubile, “Potessi poggiando la testa sul cuscino / udire il mormorìo della terra che dorme / quando sibila la sofferenza delle piante”, il disincanto, l’incedere dell’evo impietoso come l’alba che rabbuia “i filari della vigna” strappando “un altro giorno all’anno”, la dipartita, “Ti vedo, signore degli assetati che non mangiano / col diabete negli occhi, brindare, fra i lisi cuscini / alle stelle che ormai si vanno spegnendo”. E, non ultimi, fede e inquisitori della coscienza, sin dalla tenera età, “A otto anni è triste cibarsi del Dio vero”. Scandite da mordace mestizia, queste le urgenze della Frabotta. Incede quieta puntellandole a modo con le chiamate alla poesia (“A che gli vale amarla la poesia / se ricambiarla non gli è dato?”), a “quel mezzofondista / che dei dispersi / è umile apripista”, ai poeti (“troppo pochi!”), “in eterno  costretti / a pendolare / sulla stessa tratta”.





lunedì 9 aprile 2012

Affari di Cuore (Einaudi)
recensione di Grazia Calanna

“La combinazione nella continuità, l’incastro più assoluto”. Contaminazione olfattiva, gustativa, tattile, uditiva, visiva. Nitida sinestesia. “L’amore è la poesia dei sensi”. Leggendo “Affari di cuore” di Paolo Ruffilli (Einaudi) guizza la riflessione di Honoré de Balzac. Spicca, di verso in verso, la pluridirezionalità dell’intimo sentire. La coscienza  pulsa. “Infelice della mia felicità”. Rolla incessante, come al braccio di un valzer d’andamento lesto. Proustiani retaggi gli odori, sfamano i ricordi, “ritornare da te,  almeno con il naso”, esaltano l’immaginazione, “è una caccia  che, di colpo incosciente dentro il sogno, mi lascia più sfibrato”, avvampano il desiderio, “vita che ho raccolta e catturata avvolta nel suo odore di scoperta mai esaurita”. Percezioni d’occhi e di mani che si muovono con l’alito “cannibalesco” del “più ti mangio, più mi metti fame”. Le schiavitù del corpo a corpo, “chi cattura vuol farsi prigioniero”, del sudore rimestato al sangue, “squartati l’uno nell’altra beati”, del delirio, “la nostra convulsione di versarci addosso l’una dell’altro in un assalto di pura conoscenza”, del dubbio, “chi usa la testa, chi si affida al cuore e tutti e due i modi possono sbagliare”. Leopardiano indugio, permea, penetra il testo valicandolo fino a pungere il lettore, “amputato dall’attesa”. La letizia dell’affrancamento, “se non ti amo più, però ti ho molto amato e non è stato vano perché, perdendo, mi sono ritrovato”. Dell’enigma, “è in quel remoto soffio dentro al cuore che ognuno riconosce il suo destino”. Dell’illogico, “amore che non cessa di amare nel difetto”. Canti unanimi, intrappolano in una spirale di pulsioni dissennate quanto la provvisorietà globale dell’uomo piegato, suo malgrado, al diktat della casualità, “un attimo e la vita ti appare ribaltata”, e, illusoriamente, all’effetto placebo del tempo che “sfoca e fa dimenticare” rendendo “al tatto tutta la sorpresa”. Ancora, zampilla, di foglio in foglio, il sogno di un “interminabile secondo”, di colui che “amando ha rinunciato”, che “aprendo i cuori dilata i pori e le fessure fino a farne falle, passi e gole”, che “scende nel profondo”, che “trova il suo  posto inaspettato”. Corposità del respiro guardiano di un cosmo che aggiorna “dietro la piega” di “viso addormentato”. L’autore indaga il mondo dall’alcova, esclusivo “campo di battaglia”. S’affaccia sui purpurei mercati “dell’amore perduto”, scorge “il piacere di essere riamato”, la “fiera vanità”, la “tenerezza dentro la passione”, le (insane) virtù degli infelici, “la gioia dell’amante nell’amato”, e, con lampante influsso gibraniano, la (discutibile) percezione della profondità dell’amore dopo il distacco, “ho cominciato a amarti appena mi hai lasciato”.
GRAZIA CALANNA