venerdì 14 dicembre 2012


Intervista alla scrittrice Rosa Matteucci

 

“La cattiveria più grande quella del silenzio”

LA SICILIA CULTURA 10.12.2012

di Grazia Calanna

 

“Sul set di un film che non si farà, un Calvario dove Cristo non muore davvero e quindi non risorge, va in scena la storia dei destini incrociati di due donne, un’attrice in cerca di parte e una giornalista free lance, inconsapevoli interpreti di una sceneggiatura senza autore che brancola anelando un lieto fine”. Parliamo di “Le donne perdonano tutto tranne il silenzio”, nuovo stuzzicante romanzo, edito da Giunti, scritto dall’immaginifica e schietta penna (“Siccome ho pagato otto euro di cambio treno, mi sono fatta assegnare il posto di fronte a lui. Perché le cose accadono e noi con loro. Sulla spiaggia infuriava la mareggiata. Il lettore è stato rude e indifferente, come fanno due persone che si incontrano casualmente, si fiutano e si riconoscono”)  di Rosa Matteucci (nella foto di Fabio Lombrici). “Alcuni raggiungono la loro massima cattiveria nel silenzio”. Ha pensato a qualcosa del genere, come esplicitamente recita la frase di Elias Canetti (tratta da La provincia dell'uomo - 1973), quando ha scelto il titolo del suo nuovo libro?  

“No, il titolo viene da una riflessione scaturita da una risposta letta sulla rubrica la posta del cuore di Natalia Aspesi, mediata dalla lettura e rilettura dei saggi di Aldo Carotenuto, Jung a tutto andare, dove si parla del dolore intimo provocato dal silenzio, dell'opposizione del silenzio maschile alla dialettica femminile, che è vita”. Qual è la peculiarità di questo suo romanzo, cosa lo distingue dai precedenti lavori?

“Non mi è chiaro ancora, sicuramente il fatto che sbarazzatemi della pesante zavorra della storia della mia famiglia, posso finalmente scrivere quel che voglio, non avendo più l'onere di consegnare ai posteri la memoria di mio padre, ovvero il fardello della mia biografia, ormai cauterizzata, oltre che condivisa con altre anime gentili”.

“Quando mi ha stretta a sé ho pregato che quell’abbraccio fosse espressione di un giudizio decisivo del mio passato, e di una sentenza irrevocabile del mio avvenire. Invece è stato frettoloso e bruciante e sono rimasta con quel senso amaro di sogno che stava per realizzarsi e solo per sfortuna sia sfuggito”. Dell’amore, tema centrale del libro, qual è la sua segreta  definizione?

“L'amore non so definirlo se non come qualcosa di eterno e potente che parte dal cuore di ciascuno di noi e attraverso peregrinazioni, sofferenze, abbandoni e felicità ci riporta al cuore stesso”. “Scrivendo si rimane in bilico fra contemplazione di sé e comunicazione con l’altro. Una strada scivolosa che si riesce a percorrere solo con grande spudoratezza. Scrivendo, io taglio la realtà come mi pare, chi mi legge taglia la storia come piace a lui. È la libertà assoluta, una libertà necessaria”. Uno spunto di riflessione con le parole di Elena Loewenthal per chiederle: dovesse descriverla, cos’è per lei la scrittura?

“La  domanda sulla scrittura non pretende risposte, sono insite in quello che ho scritto finora, non mi piace dare delle definizioni precise, dove precisione, linearità, certezza non ci sono. Posso dire che i libri hanno rappresentato per me un lieve ponte di barche, di zatterine, su cui attraversare il tempo, la vita”.

Quali i ricordi legati al suo primo romanzo?

“La morte di mio padre e un viaggio a Lourdes in treno, vestita come una demente. Del cibo pessimo, tanti abbracci, l'incubo delle mestruazioni, un ragazzo down di Spoleto che mi ha dato tanti baci, una tenerezza e un calore speciali per quel cromosoma in più...”
Quali gli scrittori prediletti, coloro che hanno influito sulla sua formazione? “I russi Tolstoj, Dostoevskij, Celine, Zola”.

Qual è (e perché) il libro al quale è più affezionata?

“Dei miei libri o in generale? Se la seconda opzione Germinal e L'Assommoir di Zola. Dei miei, Cuore di mamma”.

Tornando al suo “Le donne perdonano tutto tranne il silenzio”, sceglierebbe per congedarsi dai lettori, così da stuzzicarli ulteriormente, uno dei passi più rilevanti?

“Il giudizio universale per opera dei cagnolini e l'ultima riga quella in cui c'è un passo dalla poesia “Dalla torre” di Mario Luzi. Fila anni luce misteriosi, fila un solo destino in molte guise, dice: “guardami sono la tua stella” e in quell’attimo punge più profonda il cuore la spina della vita”.  

GRAZIA CALANNA

 

 

giovedì 13 dicembre 2012


Università Nazionale Autonoma del Messico

“Allakatalla, quando la parola si fa poesia e la poesia canto”

Alfio Patti: “Ho ripercorso ottocento anni di letteratura, dalla scuola siciliana ad oggi”

 

Intervista di Grazia Calanna

 

“Allakatalla, quando la parola si fa poesia e la poesia canto”. È il titolo del corso tenuto da Alfio Patti, poeta, studioso della poesia siciliana colta e popolare all’Università Nazionale Autonoma del Messico (Unam), Dipartimento di Lettere Italiane della cattedra straordinaria Italo Calvino.

- In che modo sono state articolate le lezioni?

Con l’ausilio di una chitarra d’eccezione, usata da Joan Manuel Serrat, celebre cantautore spagnolo-catalano, prestatami per l’occasione,  e di un semplice powerpoint, ho ripercorso, a volo d’uccello, ottocento anni di letteratura a partire dalla scuola siciliana del Regale Solium di Federico II di Svevia fino ai giorni nostri. Le lezioni sono state divise in una parte esclusivamente teorico-didattica e un’altra artistico-musicale con canti e cunti attinenti alla lezione del giorno. Nella prima ho parlato della scuola poetica siciliana, dei poeti-giuristi e della poesia cortese e amorosa. Di seguito, ho tracciato il percorso del genere  “Contrasto”, caratteristico della letteratura latina, medievale e romanza tanto diffuso in Sicilia. E, ancora, i poeti dal 1400 al 1600, con particolare riferimento a Bartolomeo Asmundo, Girolamo D’Avila, Giovanni Nicolò Rizzari e al principe dei poeti siciliani, Antonio Veneziano. La lezione ha visto l’intervento a sorpresa della prof.ssa Mariapia Lamberti, la quale ha parlato dell’amicizia del Veneziano con Miguel Cervantes. Apprezzato anche l’incontro dedicato all’ultimo petrarchista siciliano, Giuseppe Nicolosi Scandurra e alla poetessa Graziosa Casella, autrice catanese della prima metà del ‘900. Entrambi hanno cantato l’amore e la natura; il primo in modo platonico e ideale, la seconda in modo concreto e passionale. Non sono stati trascurati i poeti del Novecento, con particolare riferimento a tre grandi della nostra poesia: Vincenzo De Simone, parnassiano per eccellenza, definito il D’Annunzio di Sicilia; Ignazio Buttitta, il quale parlò del contingente e del precario con le sue poesie civili e sociali;  Mario Grasso, poeta fuori dal coro, tra simboli e polemiche, fino a Gabriella Rossitto (l’amore traslato), Marco Scalabrino (lo sperimentalismo) e al sottoscritto - in cui la forza della parola si fa scudo e spada”.

- Tra tanti, quali i temi che hanno destato maggiore interesse?

Quelli dell’amore e dell’ingiustizia sociale. Ecco perché nella lezione sui cantastorie, il “Lamentu ppi Turiddu Carnavali” e “La Barunissa di Carini” hanno attraversato i cuori degli astanti. I giovani messicani, assetati di conoscenza, hanno palesato verso la letteratura siciliana grande rispetto e ammirazione. Certo, occorre saper porgere la disciplina con garbo e metodologia ma soprattutto credendoci fino in fondo”.

- Quale la singolarità di questo corso?

“Il rapporto tra siciliano e spagnolo, non solo attraverso le parole ma anche attraverso il costrutto delle frasi e delle espressioni. Per esempio: il nostro “non diri mancu pìu” (non aprir bocca), in spagnolo si dice “no decir no pìo”; come quando una cosa fa male alla salute noi diciamo “mi fa dannu” in spagnolo “me hace daño”. Così per le espressioni “mi affaccio da mia madre” o “Gesuzzu”, allo sternuto del bambino… Ho parlato in siciliano con molta disinvoltura e i ragazzi, tra i migliori del corso, coglievano al volo le battute”.

- La poesia, quella autentica, è generosa, sa donarsi pienamente fino a divenire un tutt’uno col lettore; schiude, senza posa, quella girandola di identificazioni che la rendono nostra per sempre. Questa premessa per avviare una riflessione sul valore odierno della poesia e sul ruolo che ha (o dovrebbe avere) il poeta.

“Credo che oggi, più di ieri, il poeta abbia un ruolo determinante nella società. I poeti non hanno fucili né cannoni ma incutono un certo timore ai “poteri forti” perché hanno la parola che arriva nel profondo delle persone e principalmente dei giovani che, educati alla non violenza e alla democrazia, vogliono riappropriarsi di quel dialogo che viene loro negato. Ecco perché scrivono poesia. A me la poesia ha dato più di un’amante fedele. È stata rifugio e pulpito, unico mezzo per comunicare in una società in cui l’uomo cerca l’uomo fra una verità virtuale e un’altra reale”.

GRAZIA CALANNA