venerdì 19 settembre 2014

Il poeta Mario Benedetti nell'intervista di Grazia Calanna (La Sicilia)


 
 
 
Benedetti: la poesia

è venire ai ferri corti

con l’esistenza

di GRAZIA CALANNA su LA SICILA del 18.09.2014

 

“Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero / prendermi i giorni, le settimane, i mesi. Il tempo / portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi. // Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco. / Adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi.”, versi di Mario Benedetti schiudono “Tersa morte” (Mondadori), itinerario esistenziale di sorprendente nitidezza, come deve esserlo la testimonianza, col quale ha vinto la sezione poesia del XLV Premio Letterario Brancati Zafferana.

-Quali i ricordi legati alle prime poesie?   

«Vittorio Sereni e la sua raccolta ‘Frontiera’».

-Cesare Viviani definisce la lettura della poesia un atto creativo, un’esperienza unica della parola creante, un atto irripetibile. Qual è la sua opinione in proposito? 

«Certamente è un atto irripetibile, anche per la qualità della dizione. A volte è un fatto meccanico senza trasporto e in questo caso forse il risultato è migliore».

-Riporterebbe un piccolo stralcio di testo nel quale è solito “rifugiarsi”?

«Ora non ho rifugio alcuno, per circostanze e incapacità tutte mie. Forse ancora ‘Genti’ di Andrea Zanzotto, per esempio rimanere su questi versi: “E talvolta mi abbacina un prato / dimenticato dietro una casa antica, / solitario, che finge indifferenza o / lieve o smunta distrazione // ma forse soffre, forse è soltanto / un paradiso”».

-Per Baudelaire “la poesia è quel che c’è di più reale: è completamente vera soltanto in un altro mondo”, per Benedetti?

«Per me è testimonianza (da parlante e da scrivente) di un'esperienza umana che consiste nel perseguire il celebre motto od obiettivo primonovecentesco: "venire ai ferri corti con la vita". Non credere troppo al sapere stilistico-formale (che è laboratorio propedeutico) ma avere cose da dire. Mi chiedo perché un poeta come Ungaretti abbia intitolato la sua Opera: ‘Vita di un uomo’. Perché le risposte  di Sereni o di Montale in molte interviste rispetto alla nascita, ed anche alla stesura del testo, rimangono un discorso poco articolato fatto di monosillabi o indicano la presenza di un'occasione,  uno stato particolare indefinibile e banalmente feriale? Esiste una condizione anteriore alla storia letteraria dei  testi in sé stessi e per sé stessi. Poi ho un'altra sensazione e una domanda: ma essere mortali, ma veramente mortali, cosa significa? Quantomeno per me ora è attraversare uno stato di paralisi in cui continuo ad osservare il finire come un semplice e terribile dato di fatto, dicibile ma evidenziando le finzioni e gli infingimenti di cui ci nutriamo (perché non pensare benché sia cosa trita a Leopardi?). Ma non ho presunzioni, davvero. Certamente, la conseguenza è che sento svalutati gli scenari della vita, mia e di tutti. Ma chiederei venia per questo mio stato d’animo e per questo pensiero».

-In un tempo in cui “non importa quello che si vede, non importa / quello che si dice o quello che si scrive”, qual è il ruolo del poeta?  

«Ho punti di vista molto personali a questo proposito che non sono in grado qui di esporre ma vorrei discuterne e poterli chiarire meglio anche a me stesso. Mi sembra che il tempo di cui lei parla non sia messo a fuoco da me per quanto riguarda l’ambito storico-sociale ma sia circoscritto a me solo e alla mia esperienza: ciò che fuoriesce, e che pure mi interessa, non è sotto il mio controllo».

-La invito a scegliere una sua poesia per salutare i nostri lettori.

«Mi sento legato a questa, per me è come un’eco del ‘Funeral Blues’ di W. H. Auden: ‘Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi, / la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti, / e i calzini sotto la tuta, eri rigido, eri rigido, eri una cosa / come un’altra, senza la forma che hanno i tavoli, / morso dallo stento del vivere, una cosa inservibile, / indecisa, un terriccio che non si nota, un pezzo di asfalto / di una strada  anonima, eri tu, quella cosa, eri tu, / quella cosa, eri uno che è morto. Così fragile il tuo sorriso, / lo sguardo  blu e gli zigomi, il metro e settantacinque / portato come un  uomo che piace, che vive per sempre, / per sempre dentro una vita che per potere essere / vissuta deve sembrare una vita per sempre, mentre eri / della carne, quello che io sono uno per sempre ancora.’».

GRAZIA CALANNA

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