domenica 5 maggio 2013


 


Sulla strada per Leobschütz di Daniele Santoro (La vita felice)

nota critica di Grazia Calanna  

 

 

“Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono”. Una riflessione di Heidegger per introdurre Sulla strada per Leobschütz di Daniele Santoro (La Vita Felice). Un libro in versi dalla forza dirompente. Del resto, con un pensiero di David Le Breton che, crediamo, colga bene il senso di questo esemplare lavoro, “il dolore inerisce alla vita come contrappunto che dà pienezza al fervore d'esistere”. Un libro, un edificio, con le pareti cementificate dalla memoria di un tempo (finito) che ha segnato il tempo (infinito) del quale non possiamo dimenticare le azioni, gli effetti. Il genocidio nazista, l’assunto. “Santoro si è documentato per scrivere, e riporta i testi a cui si è rifatto […] Documentarsi per scrivere versi? Certo, questa è la sfida, la novità, la risposta etica all’insensatezza di tanto egocentrico e fatuo verseggiare di oggi”, scrive Giuseppe Conte nella prefazione. Santoro ci afferra, con lui percorriamo lesti la strada che ci conduce dentro al campo di sterminio. Internati. “Regola prima. Me lo porti al muro / ovviamente già nudo. La divisa / la sistemi da parte col berretto / (servirà per i prossimi arrivati). // Regola due. Lo tieni per l’orecchio / se per il braccio è inutile, se fa resistenza / insomma che non s’agiti, se sbaglio mira / poco mi importa, non faccio differenza”. Allineati. “sanno ormai il destino che li aspetta / infatti a malincuore lasciano la fila / tremano messi in disparte guardano / noi che facciamo un passo avanti a / chiudere la riga”. Spezzati. “anche i bambini aspettavano la morte / intanto che aeravano le Camere  / avevano i piedini congelati / e sotto le percosse delle guardie / le mamme si inchinavano a staccarglieli da terra / … / poi insieme entravano tenendosi per mano”. Dimentichi. “voi non sapete un uomo che significhi / sfinito, sfilare nudo a passo militare / il piede congelato nel suo zoccolo di legno”.  L’aria è artica, sebbene “la calura / che spacca pure i sassi delle lacrime”. È stridente, “cantava / stringendoselo al petto, ancora strofinandogli / la punta del nasino bianco / come la neve”. È lama tagliente, scarnificante, “masticò feroce / feroce come l’animale, gli occhi scarni / e spalancati fissi su quel moribondo che / giaceva a terra”. Squarcio nel petto, lo sguardo ingabbiato sui “corpi ancora caldi accatastati / verso l’ultimo respiro”. E se da un lato la vita si è fatta più dura e minacciosa, dall’altro lato si è fatta più ricca, perché non si hanno pretese e ogni cosa buona diventa appunto un dono insperato, che riempie di riconoscenza, annotava la Hillesum maestra (e testimone) di meraviglia che sembra affiorare dai versi corpulenti di Santoro. Dopo l’approdo al vertice estremo del dolore, feroci stermini, torture fisiche e psichiche, ciniche efferatezze (“i sadici annunciavano alle loro vittime  nel campo di concentramento: domani ti snoderai nel cielo come fumo da quel camino”, sovviene Adorno), soprusi intessuti nell’intera trama vitale, versi luminosi (la poesia vive, anche, dopo Auschwitz, e finché c’è vita) irrompono,  consentono di rialzarci aggrappando lo sguardo alla volta celeste per goderne il fulgore, “a liberarci dall’angoscia è giusto una misura di stupore, / una bellezza che dia senso, amico, come quella sera / che puntavamo al cielo gli occhi e ci sorprese / il pieno delle stelle immenso il firmamento”.
 

 

 

(l’EstroVerso  maggio – luglio 2013 www.lestrvoerso.it)

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